L’identità del territorio nei vini di Casè

Quando si parla di vini naturali, c’è chi storce il naso, confonde biologico con biodinamico o non conosce nemmeno l’argomento. Oscarwine ne ha parlato con Alberto Anguissola, classe 1969, titolare in Val Trebbia della cantina Casè. Una vita dedicata alla riscoperta dei sapori di una volta.

ALBERTO ANGUISSOLA

Come hai deciso di diventare produttore?
“Per passione: la scintilla è scattata nei primi anni ‘90 con l’idea di portare avanti quella che era la tradizione dei vini che io avevo assaggiato da ragazzo insieme al mio amico Diego (Ragazzi, tuttora suo stretto collaboratore – ndr). Vini che portava a casa mia nonna Elvira, che faceva la sarta a Travo e riceveva queste bottiglie, insieme a uova e pollame, dai contadini come compenso per i piccoli lavori di sartoria. Negli anni abbiamo assaggiato prodotti incredibili, sapori che ci hanno aperto la mente, vinificati con i metodi degli agricoltori di una volta. Ai tempi dell’Università, decisi di affittare dei vigneti o di produrre comunque vino, provando a staccarmi dalla filosofia delle realtà come le cantine sociali, che facevano grandi numeri e producevano vini per il pubblico di massa. Con gli amici abbiamo iniziato a frequentare prima l’azienda La Stoppa, poi l’Enoteca San Nicola di Bobbio, gestita da Piero Bonacina, che ci ha accompagnati in un percorso di assaggi, passando dai vini semplici fino a quelli più strutturati. Presi in affitto due vigne da un coltivatore della zona insieme ad alcuni collaboratori, il primo dei quali è stato Giulio Armani (ora enologo a La Stoppa). Dopo un paio d’anni di sperimentazione, ho iniziato a impiantare in un piccolo terreno di proprietà qui a Casè dove sorge la cantina attuale, e insieme a Giulio abbiamo pensato al pinot nero, sia per la vicinanza con l’Oltrepò che per l’altitudine (siamo intorno ai 600 metri), che consente grandi escursioni termiche tra il giorno e la notte. Dopo aver vinificato per qualche anno a La Stoppa abbiamo iniziato la costruzione della cantina, che abbiamo continuato ad ampliare nel corso del tempo. Per oltre 15 anni ho condotto anche un’altra attività, sempre con l’idea e la grande passione di arrivare un domani a fare questo come lavoro, fino a quando nel 2014 ho realizzato il mio obiettivo.”

Oltre al pinot nero, coltivate anche vitigni autoctoni?
“Ultimamente stiamo puntando anche sui vitigni tipici della Val Trebbia, malvasia, ortrugo, marsanne e moscato per i bianchi, dai quali si ricava un uvaggio unico che tradizionalmente veniva chiamato Trebbianino, mentre come uve rosse coltiviamo barbera e croatina, la base del Gutturnio, che stiamo cercando di rilanciare come vino del territorio.”

Come mai la scelta del naturale?
“Durante i percorsi di degustazione all’enoteca San Nicola, ci siamo resi conto che anche assaggiando vini delle cantine più blasonate, mancavano quei sapori con cui eravamo cresciuti. Erano vini nati da una filosofia diversa, quella di cercare produzioni sempre uguali, bypassando l’annata, il clima e la mano della natura, per avvicinarsi al gusto della grande clientela, come è successo ad esempio con il Bordeaux negli anni ’90. Venendo dall’abitudine a vini del territorio così particolari e altalenanti, e dopo aver letto della rifermentazione naturale in bottiglia degli champagne, che rende ogni bottiglia leggermente diversa, abbiamo avuto la prova che si poteva percorrere una strada alternativa, tornando a privilegiare la diversificazione.”

Cosa cambia in cantina e in vigna?
“A livello di produzione, dal 2010 stiamo provando a non aggiungere solfiti su quasi tutti i vini e non filtriamo, cercando di lasciare il frutto, il mosto, integri, eliminando il meno possibile. Non voglio dire che tutti gli interventi siano sbagliati, come ad esempio il pied de cuve, che è una scelta molto comune anche per i vini cosiddetti naturali, però sono aggiunte che hanno come conseguenza la perdita di identità del “territorio” e soprattutto del marchio dell’annata. Noi preferiamo non privare il vino dei suoi lieviti, lasciando quell’impronta rustica, con sentori iniziali un po’ “scorbutici”, che migliorano molto con la permanenza in vasca e con l’affinamento in bottiglia, il cui risultato è qualcosa di più complesso.”

A livello di costi di produzione e di vendita, quali sono le differenze con una cantina canonica?
“In realtà costa quasi meno lavorare il vino in maniera tradizionale. In vigna non utilizzando pesticidi, ma solo zolfo e rame (che fortunatamente si sta abbandonando, secondo i dettami del biologico) che hanno costi contenuti rispetto ai sistemici, e lavorando quasi tutto a mano, il risparmio è significativo. La differenza principale è che si allungano i tempi di affinamento e in cantina aumenta lo spazio da dedicare allo stoccaggio delle bottiglie, quindi di fatto i costi non sono molto diversi da quelli di una cantina classica.”

Un vino naturale è sempre diverso, rispecchia pienamente l’annata. Questo non spiazza i vostri clienti?
“Lamentarsi che un vino naturale ha un sapore diverso a seconda delle annate è come separarsi dalla moglie per poi sposarne un’altra uguale: sarebbe un disastro! Battute a parte, è chiaro che questi sono vini che richiedono tempo e in più sono prodotti che vanno accompagnati e spiegati: bisogna educare il cliente, far capire che ogni annata può essere diversa dalle altre. Non è facile, ma la clientela sta crescendo come cultura del vino, anche se può diventare più consapevole su cosa sta bevendo e anche su cosa sta mangiando. Dovrebbe essere aiutata, da noi durante le visite in cantina, dalla ristorazione e dai sommelier, anche se purtroppo su questo siamo ancora indietro.”

Cosa rispondi a chi dice che i vini naturali sono una moda?
“Essendo parte integrante del movimento, siamo contenti che ci sia questa moda, ma per far sì che si possa andare oltre, il requisito principale rimane quello della serietà; lavorare in un certo modo magari non paga subito, ma alla lunga funziona: il naturale ha bisogno di tempo. Fortunatamente c’è fermento e molta curiosità, il mercato si era appiattito ma ora si respira una consapevolezza diversa, si inizia a distinguere tra bio, che significa sostanzialmente rispettare la vigna e l’ambiente, e naturale/tradizionale, che è un passo in più verso la riscoperta dei metodi e del territorio.”

Parliamo un po’ di numeri e di mercati.
“In questo momento abbiamo cinque etichette: ci sono due pinot nero, un pinot nero rosato, un bianco macerato e un rosso fatto con uvaggio tipico della nostra zona, cioè barbera e croatina, proveniente da due vigne storiche degli anni ‘60. Come produzione siamo intorno alle 25-30.000 bottiglie, con una percentuale di vendita del 75-80% verso l’estero, soprattutto Stati Uniti e Nord America, Corea, Giappone e Nord Europa, mentre Regno Unito e Germania sono mercati ancora ostici. Per quanto riguarda l’Italia, la principale destinazione è Roma, che da anni è una piazza molto più interessante per il movimento dei vini naturali rispetto ad esempio a Milano, che si sta muovendo con un po’ di ritardo.”

Come si riparte dopo un anno così difficile?
“L’anno scorso noi abbiamo fatto un 10-12% in più e non ce l’aspettavamo; vendendo un po’ in tutto il mondo siamo riusciti ad evitare che i lockdown delle singole aree fermassero completamente le esportazioni. Secondo me il 2021 sarà più complicato, soprattutto in termini di liquidità delle aziende e del mercato in generale. Credo e spero che alla fine della pandemia ci sarà una consapevolezza diversa e le persone si renderanno conto che sarebbe meglio bere e mangiare magari un po’ meno ma meglio, privilegiando i prodotti del territorio. Sta anche a noi produttori spiegare quello che stiamo facendo e proporre prodotti a prezzi competitivi, senza speculare sull’entusiasmo della moda del momento.”

DIEGO, ALBERTO E DAVIDE

Prossimi obiettivi?
“Innanzitutto avere la possibilità e la forza economica per aumentare lo spazio in cantina dedicato allo stoccaggio e all’affinamento, per poter continuare sulla strada tracciata in questi anni. Non mi interessa fare il vino di Alberto Anguissola e probabilmente per questo non diventerò mai ricco, ma preferisco impostare un metodo per fare in modo che persone come Davide (Cozzolino, collaboratore della cantina – ndr), provenienti da altre esperienze e da zone diverse dell’Italia, siano in grado di portare avanti una tradizione del vino locale indipendente da chi lo produce. Inoltre, anche per dare un’idea in qualche modo di “rinascita” nel post-pandemia, vorremmo concentrarci su un restyling generale, sia per la cantina e l’ospitalità per le degustazioni, sia per il marchio e le etichette, sempre cercando di fare cultura e fare appassionare i giovani al territorio e alla tradizione.”

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