La Liguria contemporanea di Cà du Ferrà

Perché lasciare Milano e una professione ben avviata per trasferirsi in Riviera di Levante e ripartire dalle vigne? Colpa della “liguritudine”. Così sostiene Davide Zoppi, che insieme al marito Giuseppe Luciano Aieta nel 2017 decide di rivoluzionare l’azienda di famiglia Cà du Ferrà, lanciando un progetto di valorizzazione del territorio e dei vitigni autoctoni, con uno sguardo al passato e uno al futuro.

Come è iniziata l’avventura di Cà du Ferrà?
“Cà du Ferrà è stata una sorta di vocazione. Sono tornato a Bonassola dopo la laurea in Diritto Internazionale in Cattolica a Milano, quando ormai pensavo che avrei fatto scuola di magistratura. Questo posto aveva la necessità di essere raccontato nel modo giusto, di essere veicolato con un prodotto di grande qualità che parlasse della verticalità della Liguria, di questo territorio che è Bonassola e il Levante ligure, fatto di precipizi, strapiombi, muretti a secco ma anche di infinito e di orizzonti. Questa cosa mi ha sempre affascinato, era la brace che ardeva sotto la cenere a cui ho dato la vampa. Ormai sono nove anni che insieme a Giuseppe, che è diventato mio marito proprio allora, abbiamo deciso di trasferirci. Anche lui viene da un percorso totalmente diverso, è un ingegnere gestionale con un master in finanza e ha lavorato in ruoli dirigenziali. Tutte esperienze diverse che però collimano con l’idea Cà du Ferrà che è quella multidisciplinare, un mix and match di cultura e sapere che ha dato luogo a questa bellezza.”

DAVIDE ZOPPI E GIUSEPPE LUCIANO AIETA

Come si traduce in concreto questa idea?
“Abbiamo preso in mano l’azienda di famiglia rivoluzionandola a partire dai vigneti. Il nostro orgoglio è quello di raccontare la Liguria contemporanea, che per noi è l’idea di una storia che si fa moderna. Non possiamo restare ancorati alla tradizione semplicemente perché così sempre si è fatto. Volevamo lavorare con tecniche innovative: siamo nel nuovo secolo ed è evidente che è la scienza a guidarci dal punto di vista agronomico e tecnologico. In questo progetto tre anni fa abbiamo chiesto la collaborazione dell’enologa Graziana Grassini: è stato un incontro straordinario, primariamente umano oltre che professionale, con una donna caparbia come noi, di grande sensibilità e intelligenza, dotata di molto tatto anche nella capacità di lettura dei vini, un aspetto che fa la differenza. Con lei è arrivato come agronomo Gabriele Cesolini e insieme stiamo facendo un lavoro molto importante tra campo e cantina. Abbiamo installato centraline meteo nuove, reti antigrandine, quest’anno stiamo inserendo l’irrigazione goccia a goccia su tutti gli undici vigneti e in cantina nuove attrezzature, con la gestione del freddo che va a implementare la parte olfattiva e gustativa. Vinifichiamo tutto per singole parcelle e su alcune andiamo a raccogliere anche due o tre volte, per seguire le maturazioni. I nostri vini sono il risultato di un grande puzzle, di un mosaico territoriale e stilistico tutto nostro.”

La parola racconto torna spesso nei tuoi discorsi. Come vorresti raccontare questa Liguria contemporanea?
“Che cos’è contemporaneo se non qualcosa che comunque ha una storia? Pensando alla Liguria, a Genova e alle Cinque Terre, la mente va al suo periodo più florido, tra il ‘500 e il ‘600, quando era regina dei mari e commerciava con tutto il mondo. La contemporaneità oggi è non chiudersi nel proprio orto o nella propria terrazza ma guardare sempre alla commistione. Cà du Ferrà è questo, un luogo di contaminazioni di persone, di culture, di religioni, di opinioni filosofiche e politiche. È la riflessione su un modo di vedere il mondo in maniera plurima. Anche nel nostro team di campo abbiamo ragazzi molto diversi, sia dal punto di vista dell’estrazione linguistica che come sensibilità. Ognuno apporta uno stimolo diverso in questo puzzle. Oggi siamo in undici tra campo, agriturismo e cantina: un gruppo affiatato in cui ognuno rappresenta uno strumento diverso di un’orchestra. Sono contento di come stiamo crescendo, non solo come numeri, anche se ci sono obiettivi precisi come l’ampliamento della produzione a 50mila bottiglie, l’allargamento della cantina e l’acquisizione di nuovi vigneti, ma anche come spinta nel fare meglio il nostro lavoro, studiando e specializzandoci sempre di più.”

Immaginiamo di sorvolare Bonassola con un drone e scoprire il mosaico dei vigneti di Cà du Ferrà…
“In realtà noi le vigne le vediamo davvero dall’alto, perché abbiamo una app per il controllo satellitare e monitoriamo i vigneti con tre indici: l’indice vegetativo, la fotosintesi clorofilliana e la disponibilità idrica. Sono territori diversi, tanti tasselli che compongono il mosaico: partiamo dai vigneti della spiaggia di Bonassola a 50 metri sullo scoglio, che danno vini in cui si sente il sale, il salmastro, fino ad arrivare ai 400 metri in alta collina nel vigneto più alto, su una placca marina continentale. Un’orografia verticale di straordinaria bellezza, con una vista a 180° sul Mediterraneo: la Versilia, Punta Ala e Livorno, le isole Gorgona, Capraia ed Elba, la Corsica proprio qui di fronte; poi tutta la Riviera di Ponente, con il faro di Portofino che illumina la vista notturna, fino al confine francese con Cap d’Antibes e Saint Tropez. Bonassola è un borgo marinaro di mille abitanti appena fuori dal Parco Nazionale delle Cinque Terre che ha mantenuto negli anni una gestione attenta del territorio e un ritmo di vita molto più lento. È un territorio ben preservato dal punto di vista ambientale, l’acqua del mare è cristallina e le uve non possono che venire bene, anche perché raramente si vedono vigne in posti brutti.”

Tutto questo legame con le tradizioni si riflette anche sulla scelta dei vitigni?
“Abbiamo un florilegio di vitigni. Il principe ovviamente è il vermentino a bacca bianca (dalla vigna più alta ricaviamo il Luccicante, Vermentino Dop in purezza) ma abbiamo anche albarola e bosco, che sono gli altri due autoctoni che vanno in composizione nel nostro Colline di Levanto bianco Dop, il Bonazolae. Con i rossi ci siamo sbizzarriti, abbiamo voluto condensare questa visione tra Toscana, Liguria e Francia in un anfiteatro a 230 metri sul Golfo di Bonassola, con una pendenza del 30%, piantando sei vitigni diversi. Con sangiovese, ciliegiolo, merlot, grenache, vermentino nero e syrah realizziamo un vino (‘Ngilù, dedicato a mio nonno Angelo) che è una “follia mediterranea”, con tre vendemmie separate e assemblaggio in acciaio. Magia di Rosa è un rosato Igp da sangiovese, vermentino nero e syrah, e infine c’è L’intraprendente, Liguria di Levante passito bianco IGP da uve bosco, vermentino e albarola che vengono appassite per diversi mesi in cantina e sgranate a mano. È un vino pericoloso mi verrebbe da dire, perché ha una beva straordinaria. Pur essendo un passito ha una freschezza e una sapidità molto intriganti.”

C’è anche un altro vitigno autoctono a cui tenete molto…
“Insieme al CNR di Torino abbiamo avviato un progetto di recupero varietale del ruzzese, un’uva che ha 500 anni di storia, e fondato una comunità Slow Food per la sua protezione e valorizzazione. È un vitigno prefillosserico, ritrovato ad Arcola dal Prof. Mannini e dalla Prof. Schneider. Insieme a loro siamo partiti una decina di anni fa con 77 barbatelle nella vigna dove nasce il Luccicante e in 9 anni di lavoro siamo arrivati a 1500. Ne abbiamo ricavato prima il diciassettemaggio, una versione passita (si narra che all’epoca fosse molto apprezzata da Papa Paolo III Farnese, proposta dal suo bottigliere Sante Lancerio, primo “sommelier” della storia) e quest’anno, sempre nell’ottica della contemporaneità, abbiamo lanciato un bianco secco, fermentato e affinato in tonneaux da 500 litri, che abbiamo chiamato Zero tolleranza per il silenzio.”

Come è nata l’idea di questo nome?
“Siamo partiti da diverse sensibilità ed esperienze che potessero raggruppare vari ambiti tra l’umano e il filosofico e che raccontassero qualcosa di noi. Voleva essere la summa del lavoro che abbiamo costruito in questi anni con le altre etichette. Partendo dal colore, perché il bianco non è un colore neutro ma li contiene tutti, quindi riunisce anche quelli delle nostre altre referenze. Il nome nasce da una riflessione, che è quella di non avere mai paura nella vita, non avere ritrosie o omertà, vivere una vita a testa alta ed esporsi dicendo sempre la propria. Uniamo a questo, il fatto di ridare voce ad un vitigno che era andato perduto e il risultato è Zero tolleranza per il silenzio. Mi ha fatto piacere in questi primi mesi dopo il lancio che ognuno lo declinasse secondo la propria sensibilità: è un messaggio aperto, una nostra riflessione che però lasciamo agli altri. C’è chi lo ha interpretato contro il genocidio a Gaza, contro i femminicidi o l’omofobia.”

Anche l’etichetta merita un approfondimento…
“Abbiamo scelto un’etichetta doppia accoppiata in tessuto di cotone, con una linguetta che si tira e si strappa su una sorta di binario svelando il nome, come lo squarcio del velo di Maya. È quella l’idea, andare all’essenza dell’umano e anche del vino, ritrovare una sorta di intimità, tra la lettura della propria sensibilità e dello stesso vino che parla quando viene aperto. Abbiamo voluto amplificare anche il suono dello strappo con un’etichetta particolarmente pesante, per dare ancora più enfasi a questa presa di coscienza. Possiamo considerarlo un invito al coraggio, partendo dal gesto forte e poco istintivo di strappare l’etichetta, che diventa gesto sociale e politico. È un riportarsi fondamentalmente all’essere umano.”

Valorizzazione del territorio, recupero degli autoctoni, messaggi sociali sulle etichette. Ti lancio una provocazione: sembrano tutte “bandiere” del movimento naturale…
“Mi viene l’orticaria quando sento la parola “naturale”, lo dico con franchezza. Nel senso che il vino non è mai naturale, è un prodotto dell’uomo. Parlare di basso impatto ambientale già mi piace di più. Il nostro è un vino che ha una conduzione, perché dietro ci sono un pensiero e una trasmigrazione culturale. Quando si pensa ai prodotti a fermentazione spontanea, chiamiamoli naturali, si cerca di assurgere a una purezza quasi ancestrale, come se nel tempo avessimo perso una sorta di verginità. Questa cosa fa un po’ ridere, il vino è il prodotto agroalimentare per eccellenza, dove il territorio e l’intervento dell’uomo la fanno da padrone. Prendiamo le lunghe macerazioni: ritrovo tanta omologazione, nonostante si sventoli la bandiera dell’unicità e della differenziazione. Se facciamo un lavoro attento e preciso, nella buccia abbiamo grande patrimonio ampelografico, territoriale, olfattivo e genetico di quel vitigno; sarebbe giusto preservarlo il più possibile, lavorando con il freddo, perché senza controllo della temperatura si perde tanto di quel patrimonio. Ciò non preclude il fatto che prestiamo grande attenzione al recupero varietale e del territorio. In quanto vignaioli indipendenti FIVI, abbiamo un approccio serio all’agronomia ragionata e all’enologia, però questo non vieta l’utilizzo di tecniche e metodologie contemporanee.”

Cosa ne pensi dell’uso del legno in cantina?
“Ritengo che si possano fare eccellenti vini anche in acciaio, mantenendo freschezza di frutto, verticalità, beva. Con il nuovo progetto abbiamo voluto vinificare e fermentare in tonneaux perché comunque il legno è un prodotto naturale e si sposava bene con il profilo di quel vitigno, che ha struttura, alta acidità e si presta alla maturazione. Non amo i lavori precostituiti, ciascuno deve avere il suo abito e le sue misure. Eviterei gli abusi in generale, quando si sente la masticazione delle doghe, la tostatura estremizzata. Quelli non sono certamente i nostri vini.”

In che direzione vorresti che andasse Cà du Ferrà?
“Mi piacerebbe riuscire a stratificare sempre più i vini, renderli compositi, dinamici, tridimensionali, in modo che possano abbracciare tutte le dimensioni gustative. Stiamo già lavorando in questa direzione, ottimizzando le attività agronomiche sulle maturazioni e il lavoro in cantina.”

Proviamo a suggerire degli abbinamenti per i vostri vini…
“Bonazolae lo abbinerei alle ostriche di La Spezia, dove tra l’altro c’è una comunità Slow Food che sta facendo un recupero molto interessante della storicità del golfo. Luccicante starebbe bene con un branzino al sale con patate, olive e pomodorini. Con Magia di Rosa metterei un risotto con i gamberi viola di Santa Margherita Ligure. ‘Ngilù lo servirei fresco e, sempre per rimanere nella tradizione ligure, lo abbinerei con i moscardini al pomodoro, oppure con una zuppa di pesce o i muscoli ripieni alla spezzina. Zero tolleranza per il silenzio è un vino composito, si presta a diverse tipologie di abbinamento; se usciamo dalla Liguria e parliamo al mondo, lo vedrei bene con una cena di sushi. Da poco abbiamo iniziato una collaborazione con Cecilia Rabassi, prima donna Maître Chocolatier al mondo, abbinando tre suoi cioccolati ai nostri vini: per L’intraprendente abbiamo scelto Myway, un fondente extra 80% che ha un’aromaticità straordinaria, con una parte sapida che chiude il finale di bocca. Perfetto.”

Visited 5 times, 5 visit(s) today