Professioni del vino: Sara Zambianchi, agronomo
In questi ultimi anni il rapporto tra scienza e vino si è fatto sempre più stretto ed alcune figure come quella dell’agronomo sono ormai una presenza consolidata all’interno di tutte le aziende vitivinicole, non solo quelle più grandi e strutturate. Ne abbiamo parlato con Sara Zambianchi, sommelier e ricercatrice presso l’Università Cattolica di Piacenza.
Innanzitutto sgomberiamo il campo da un equivoco: si dice agronomo o agronoma?
“Io preferisco agronomo. Si sta iniziando ad usare anche la declinazione femminile del termine ma per me non fa differenza. Va bene così.”
Come ti sei avvicinata al mondo del vino?
“Venendo da una famiglia di viticoltori, il mio approccio a questo mondo è stato quasi naturale. Già al liceo avrei voluto iscrivermi ad agraria ma i miei genitori non erano d’accordo: c’era ancora lo stereotipo di una scuola molto “maschile” e quindi per quieto vivere ho optato per il liceo scientifico. Al momento di scegliere l’università però non ho avuto dubbi. Dopo la triennale in scienze e tecnologie alimentari mi sono fermata un anno per guardarmi un po’ in giro, ho lavorato per qualche cantina e mi sono fatta le ossa. Poi mi è stata assegnata una borsa di studio per il merito alla Cattolica di Piacenza e ho completato la magistrale in viticoltura ed enologia con una tesi legata alla tracciabilità alimentare, in particolare alla filiera vitivinicola.”
Come mai questa scelta?
“In quel periodo la zona dell’Oltrepò Pavese era salita agli onori delle cronache per alcune vicende spiacevoli e volevo fare qualcosa di concreto per la filiera del mio territorio, per tutelare sia i consumatori che gli stessi produttori. Grazie ai fondi garantiti da un’importante cantina della zona abbiamo realizzato uno studio sull’utilizzo del metodo di tracciabilità basato sul DNA, che già esisteva ma che non era mai stato applicato su una realtà così grande e non aveva dato risultati soddisfacenti nella pratica, pubblicando subito un articolo in letteratura. Mi è stato poi affidato un dottorato di ricerca – che si concluderà a dicembre 2022 – per continuare a sviluppare gli studi sull’argomento.”
Entriamo nel dettaglio di questa ricerca.
“È già uscita una nuova pubblicazione, la prima del suo genere in letteratura scientifica, sulla conservabilità e l’estraibilità del DNA all’interno di un vino. Oggi si utilizzano diversi metodi per la tracciabilità della filiera, ma nessuno raggiunge la stessa precisione del DNA per individuare la vite, o meglio la “cultivar”, che sarebbe l’equivalente del singolo essere umano nelle analisi forensi di cui tutti abbiamo sentito parlare nei casi di cronaca. Questo tipo di analisi in Italia non viene ancora riconosciuta dal Ministero e l’unica con valenza legale per la tracciabilità è quella degli isotopi, che però è basata su criteri meno precisi e ha minori potenzialità di sviluppo. In più l’analisi del DNA potrebbe anche riuscire ad individuare pratiche “non ortodosse” che gli studi attuali non sono in grado di rilevare.”
Quali sono i prossimi sviluppi?
“Finora siamo riusciti ad identificare con precisione la provenienza di un vino bianco monovarietale fino al dodicesimo mese di “vita”, mentre per i vini rossi, sempre da singolo vitigno, si può arrivare fino ad 8 mesi. Ora stiamo implementando il metodo per definire fino a che punto si possono rilevare le contaminazioni anche negli assemblaggi. Siamo partiti dai test sui blend dei mosti aumentando progressivamente la percentuale dell’uvaggio secondario ed ora stiamo passando alle analisi sui vini. Oltre a questo stiamo cercando dei fondi per sviluppare dei marcatori del DNA più performanti, specifici per le varietà più importanti dell’Oltrepò Pavese. Diciamo che in generale gli sviluppi potrebbero essere molteplici, ma senza finanziamenti in questo campo si fa poca strada.”
Parlando di finanziamenti, che riscontro c’è al momento a livello di consorzi e cantine?
“Ad uno dei progetti che abbiamo scritto parteciperà come partner proprio il Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese. Ovviamente ricerche di questo tipo richiedono grossi budget e risulta difficile proporle alle cantine singole o più piccole. Al momento l’unico ostacolo all’utilizzo pratico di queste analisi è che non sono ancora riconosciute a livello legale, quindi le aziende sono restie ad investire. L’obiettivo principale delle mie ricerche è quello, forse utopistico, di proteggere le produzioni e dare un valore aggiunto alla bottiglia: le grandi cantine avrebbero tutto l’interesse ad implementare una tracciabilità all’avanguardia sui loro vini più importanti, facendoli al tempo stesso aumentare di valore.”
Facciamo un passo indietro. Proviamo a spiegare cosa fa un agronomo e come si rapporta con le altre figure all’interno di un’azienda.
“Sarebbe banale dire che l’agronomo sta in vigna e l’enologo sta in cantina. In parte è vero e in alcune realtà è come se ci fosse un muro a dividere le due figure. È fondamentale invece che ci sia condivisione: più arriva in cantina un’uva sana, raccolta al momento giusto e adeguata al prodotto che l’enologo ha immaginato, più il vino sarà equilibrato e duraturo. Si dice che i vini si possano “sistemare” in cantina, ma non è proprio così. La differenza si sente ed è legata al lavoro dell’agronomo, che deve curare il sostentamento della vite e far sì che le uve siano perfette: è una soddisfazione per chi è in campagna, ma è soprattutto un peso e un costo in meno per chi lavora in cantina.”
Come è cambiato il ruolo dell’agronomo negli ultimi anni?
“La figura dell’agronomo sta diventando sempre più importante, sia per questioni normative che per una naturale evoluzione della viticoltura. Una volta in agricoltura si lavorava fidandosi più dell’istinto e dell’esperienza mentre ora si è capito che lo studio è fondamentale anche in vigna. Oggi ci troviamo davanti a nuove sfide da affrontare: il cambiamento climatico impone di ragionare con attenzione sulle scelte a lungo termine. Se sulla produzione attuale si può fare poco, cercando di limitare i danni, bisogna avere le idee chiare per pianificare il futuro. Per esempio si potrebbe iniziare a pensare a nuovi portinnesti e non ad investire solamente sui cloni, concentrarsi su sistemi di allevamento che perdano meno acqua, capire come trattare il suolo in modo che non trattenga le piogge e allo stesso tempo apporti sostanze nutritive. Dobbiamo capire che la vite è una coltura perenne e non possiamo permetterci di sbagliare.”
Quanto la spinta verso il biologico e il biodinamico sta impattando l’attività dell’agronomo?
“Prima di tutto è importante fare una distinzione tra biologico e biodinamico. A livello accademico il biodinamico non viene nemmeno preso in considerazione, in quanto non ha basi scientifiche ed è solo una convenzione “di moda”. Ora si sta lavorando molto sul biologico, però non si può pensare di farlo indiscriminatamente: ci sono diverse variabili da considerare, soprattutto in relazione alle condizioni climatiche. In più va sfatato il mito del “biologico uguale sano”, perchè non è sempre così. Ci sono studi che confrontano biologico e convenzionale a livello di impatto ambientale e produttivo e i risultati non sono così scontati come si potrebbe pensare.”
Oltre allo studio, ti occupi di vino anche in altri modi.
“Attualmente sono al secondo mandato come coordinatore regionale delle Città del Vino, anche se tra i due anni di pandemia e la crisi economica attuale, il movimento in questo periodo ha grosse difficoltà a coinvolgere i comuni nelle iniziative. Sono anche consigliere dell’Associazione Strada del Vino e dei Sapori Oltrepò Pavese e nel consiglio del Consorzio Oltrepò. A volte è difficile conciliare tutti gli impegni ma non mi pesa, perchè il vino è la mia passione. Dimenticavo una cosa: quando mi avanza del tempo vado anche ad aiutare mio padre in vigna.”
Come ti immagini il tuo futuro?
“Mi piacerebbe innanzitutto riuscire a rimanere nell’ambito accademico per poter continuare il mio lavoro di ricerca. Non mi vedo a lavorare per una singola cantina, quanto piuttosto come consulente per diverse realtà: questo mi permetterebbe di avere una visione più ampia delle problematiche e delle esigenze del mondo vitivinicolo.”
Chiudiamo con un classico: il tuo vino del cuore.
“Senza dubbio il Pinot Nero. Per tanti aspetti è un rapporto di odio e amore, ma ha sicuramente un fascino unico, anche dal punto di vista accademico.”