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Uno sguardo al futuro: PIWI e nuovi innesti

In quest’epoca di cambiamenti climatici che stanno influendo pesantemente sulle coltivazioni, inaridendo i terreni e facendo prosperare nuove malattie delle piante, quali contromisure sta mettendo in campo la scienza per aiutare il lavoro dei viticoltori? Ne parliamo con Vincenzo Betalli, tecnico di Civit, il Consorzio innovazione Vite nato nel 2012 dalla fusione tra il Consorzio dei Vivaisti Viticoli Trentini (AVIT) e la Fondazione Edmund Mach di San Michele All’Adige, con l’obiettivo di trasferire l’innovazione scientifica al mondo dei produttori.

Di cosa si occupa il Civit?
“La Fondazione Mach lavorava già da tempo al miglioramento genetico della vite ma questo know-how non veniva comunicato all’esterno. Il Civit nasce proprio per l’esigenza di far conoscere a 360° l’innovazione nel settore viticolo, quindi non solo il lavoro sui vitigni resistenti frutto d’incrocio, i cosiddetti PIWI, ma anche le moderne biotecnologie (Tecnologie di Evoluzione Assistita) e la selezione di nuovi portinnesti di vite, tolleranti alla siccità e ad altre situazioni di stress abiotico. Negli ultimi anni si è registrato un forte interesse proprio sui PIWI, varietà frutto di incrocio interspecifico. L’incrocio per impollinazione è una tecnica che viene usata da decenni, basti pensare al’Incrocio Manzoni, al Müller-Thurgau o al Rebo. Questi sono incroci intraspecifici, cioè tra due specie di vitis vinifera, mentre l’incrocio interspecifico avviene tra una vitis vinifera e una vite che ha nel suo patrimonio genetico varietà americane o di origine asiatica, che portano resistenza alle malattie fungine. Questa attività in Fondazione Mach è cominciata a fine anni ‘80, però solo recentemente abbiamo iniziato a vederne i frutti.”

vincenzo betalli

VINCENZO BETALLI

Com’è organizzata la vostra struttura?
“Del Consorzio fanno parte 11 aziende vivaistiche, che costituiscono il 70% della base sociale. Il restante 30% è in carico alla Fondazione Mach, che dà al Civit tutto il supporto tecnico-scientifico. Al momento sono l’unico dipendente. Sono un tecnico con una formazione agronomica e gestisco la parte burocratica e la promozione: seguo le microvinificazioni e le porto in assaggio ai produttori. Oltre a me, ci sono una serie di collaboratori e collaboratrici che in Fondazione si occupano degli aspetti tecnici  e mi aiutano negli eventi e nelle degustazioni. Il professor Marco Stefanini, da poco diventato presidente di PIWI Italia, è il genetista, colui che decide come fare gli incroci, e coordina il team di miglioramento genetico della vite. Altre persone che collaborano con Civit sono l’enologo che fa le microvinificazioni oppure i tecnici e i ricercatori che si occupano dei rilievi in campo. I soci vivaisti finanziano alcuni progetti e ci aiutano per la traduzione delle barbatelle sperimentali.”

Quali sono le caratteristiche più richieste in questo momento e come vengono implementate?
“La selezione avviene partendo da un genitore particolarmente resistente alle malattie fungine. Per ora abbiamo ottenuto incroci di buon livello contro la peronospora e l’oidio ma stiamo cercando di contrastare anche altre malattie emergenti come il black rot o la xylella. Avendo dei figli resistenti, si riduce il numero di trattamenti chimici in vigna. Oltre a questo, si sperimentano nuove varietà che possano adattarsi ai cambiamenti climatici che già abbiamo in atto. Incrociando ad esempio lo Chardonnay con una varietà resistente, si ottiene un nuovo PIWI che mantiene caratteristiche comuni col genitore nobile, quindi enologicamente molto valido, però con una maturazione tardiva e un adattamento maggiore allo stress idrico, per contrastare quanto successo ad esempio nel 2022, un’annata particolarmente calda che in Franciacorta ha portato grossi problemi sullo Chardonnay tradizionale, come cali di acidità e maturazioni anticipate.”

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Nel pensiero comune i PIWI vengono visti come vitigni coltivati solo in zone impervie. È ancora così?
“Questa idea è nata perché i primi PIWI arrivati in Italia, provenendo dalla Germania erano molto precoci e quindi venivano coltivati a quote altimetriche importanti, sopra i 600 metri. Oppure grazie alla loro resistenza venivano piantati in zone poco vocate o molto difficili da un punto di vista climatico. In realtà, aumentando la biodiversità e continuando a selezionarne di nuovi, la gamma si è ampliata e stiamo trovando varietà che potrebbero essere complementari in qualsiasi zona vitivinicola. Ad esempio i PIWI figli di Chardonnay o di Pinot bianco potrebbero affiancare le varietà tradizionali anche in territori più comuni come quelli del Trento Doc o della Franciacorta.”

civitCi sono grosse differenze nella sperimentazione tra i diversi vitigni, ad esempio tra quelli a bacca bianca e a bacca rossa?
“Ogni vitigno ha le sue peculiarità. Anche partendo da incroci che hanno gli stessi genitori, quindi “papà” tradizionale e “mamma” resistente, i figli che si generano presentano caratteristiche diverse, come accade con gli esseri umani. Fino a qualche anno fa gli incroci venivano visti come un’unica famiglia molto omogenea, ma ogni varietà ha i suoi tratti distintivi. La stessa differenza che può esserci tra un Sauvignon e uno Chardonnay la ritroviamo tra un Souvignier gris e un Solaris. Per quanto riguarda i vitigni a bacca rossa, al momento siamo più indietro. C’è bisogno di un lavoro approfondito per valorizzare le caratteristiche varietali. Le vecchie generazioni di PIWI davano vini spigolosi e selvatici, mentre ora le potenzialità sono molto alte: il Pinot Regina, i nuovi incroci di Schiava o di Lagrein, pur essendo ancora vinificazioni sperimentali su basi di piante con pochi anni di vita, cominciano ad avere un grado di finezza e di complessità molto interessante.”

Quali sono le varietà che vanno per la maggiore?
“Il PIWI più innestato negli ultimi anni è il Souvignier gris, grazie all’elevato livello di resistenza che permette di limitare al minimo i trattamenti in vigna. In più è una varietà molto duttile a livello agronomico, perché non è così precoce – al contrario del Solaris – e ha un bello sviluppo vegetativo e una produzione equilibrata. Si presta anche a vinfiicazioni diverse: chi ha deciso di spumantizzarlo ha ottenuto ottimi risultati, così come chi lo ha vinificato in bianco o con macerazioni. Altra nostra varietà che sta avendo successo è lo Charvir, particolarmente vocato per le basi spumante in un momento storico in cui le bollicine la fanno da padrone. Tra i vitigni a bacca rossa voglio citare il Pinot Regina, incrocio con il Pinot nero, perché qualitativamente molto intrigante: diversi viticoltori veneti sono interessati a metterlo a dimora per vedere come si comporta nella produzione del Prosecco Rosè.”

civitSu quali novità state lavorando?
“Tra le più recenti selezioni per l’omologazione, abbiamo due incroci di Chardonnay e uno di Schiava che per ora hanno solo delle sigle, anche se prima o poi li battezzeremo con nomi più commerciali. C’è anche un incrocio con il Lagrein che si discosta parecchio dal genitore: dà un vino scarico di colore, un po’ pepato, che ricorda molto la Corvina. Abbiamo deciso di registrarlo perché ha suscitato interesse tra i produttori di Bardolino e della Valpolicella. Stiamo lavorando molto sui vitigni a bacca bianca, sia perché al momento sono più richiesti, sia perché siamo in un territorio dove va forte la bollicina. Fermo restando il fatto che dobbiamo rispondere alle esigenze di tutti, perché vendiamo ovunque in Italia, se riuscissimo a trovare una varietà che, a fronte dello sblocco della normativa, possa essere inserita nel disciplinare del Trento Doc, per noi sarebbe una bella soddisfazione. Detto questo, al momento stiamo collaborando con le Marche su incroci di Pecorino e Montepulciano, lavoriamo con un ente di ricerca in Romagna su Lambrusco, Sangiovese e Trebbiano e da qualche anno siamo in contatto con la Fondazione Fojanini di Sondrio per un progetto sul Nebbiolo. L’idea è quella di aumentare la biodiversità e trovare delle varietà che possano essere non dico sostitutive, perché non siamo così ambiziosi, ma complementari ai vitigni storici delle diverse regioni italiane.”

Parliamo degli innesti. Com’è la situazione ad oggi?
“Da fine ‘800, dopo l’arrivo della fillossera, la vite europea ha dovuto ricorrere alla strategia dell’innesto. È sostanzialmente quello che dà lavoro ai vivaisti. Tutte le barbatelle che vengono messe in commercio sono frutto di innesto della varietà vinifera europea su una talea di vite americana. La produzione attuale di barbatelle a livello europeo si basa ancora sull’uso di quei pochi portinnesti creati all’inizio del secolo scorso, quindi il Kober, l’SO4, il 110 Richter, oppure il Paulsen e il Ruggeri per i climi mediterranei. In Italia abbiamo però 400 varietà diverse di vitigni, quindi la parte aerea della vite ha una maggiore variabilità genetica e biodiversità rispetto alla parte radicale. Negli ultimi anni, con l’aumento dell’impatto ambientale, si stanno studiando nuove opzioni per portinnesti che possano aiutare la pianta a livello radicale a tollerare lo stress idrico o l’eccessiva salinità del terreno. Ad esempio l’Università di Milano ha sviluppato una nuova generazione chiamata M e noi, in collaborazione con l’Ungheria, qualche anno fa abbiamo registrato il Georgikon 28, che ha il vantaggio di contrastare meglio la siccità oppure il calcare che in alcune zone del Trentino-Alto Adige, quando è in eccesso nel suolo, può portare problemi alla pianta.”

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GEORGIKON 28

In quale direzione sta andando il mercato?
“Il mercato del vino è indubbiamente in sofferenza. Tengono botta gli spumanti e alcuni bianchi, mentre i rossi, tranne i grandi nomi, sono in difficoltà. Il vantaggio di noi vivaisti è che possiamo vedere in anticipo cosa succederà nei prossimi 2-3 anni: se i clienti non piantano Primitivo o Montepulciano, vuol dire che sono mercati in cui si fatica a vendere. Lo stesso sta accadendo ai nostri colleghi toscani. Anche il Sangiovese, tranne in alcune isole felici come Montalcino, è in crisi, tanto è vero che ci arrivano richieste di barbatelle di Chardonnay o altri bianchi. Oggi la tendenza diffusa è la rincorsa a produrre la propria bollicina, con il rischio che nel giro di pochi anni si arrivi alla saturazione del mercato.”

Com’è ad oggi la situazione politica e normativa sulla sperimentazione?
“In Italia, al contrario di quanto avviene in altri Paesi europei, al momento i PIWI non sono contemplati nei disciplinari di produzione. Lo scorso dicembre abbiamo fatto un’audizione in Senato, sensibilizzando la politica sull’introduzione dei PIWI nelle Doc. Se tutto va bene, entro il 2025 ci sarà la possibilità di modificare i disciplinari. Potrebbe essere una prima piccola rivoluzione, poi chiaramente spetterà ad ogni consorzio di tutela la scelta dei vitigni da introdurre. Recentemente anche Albino Armani, presidente del Consorzio di Tutela Vini DOC Delle Venezie, si è detto interessato e disponibile ad inserire i PIWI nella loro denominazione. Sono due notizie che aprono uno spiraglio interessante per il futuro della sperimentazione.”

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