
Trump vs Europa: dazi nostri
Alla vigilia dell’entrata in vigore dei dazi al 15% imposti dal presidente USA Donald Trump sulle merci provenienti dall’Unione Europea, pubblichiamo l’intervista realizzata qualche settimana fa con la senatrice Silvia Fregolent di Italia Viva, piemontese DOC che, come tutti i suoi conterranei, ha il vino nel sangue e conosce bene la materia.
Senatrice, ci avviciniamo alla scadenza dei novanta giorni di Trump sui dazi. Cosa si aspetta?
“Con tre guerre in corso il mondo sta attraversando una delle fasi geopolitiche più delicate degli ultimi decenni. In questo contesto, inserire una disputa commerciale tra Stati Uniti ed Europa sarebbe un errore gravissimo. La priorità deve essere quella di rafforzare le economie, non indebolirle con misure che rischiano di diventare mine sotto i piedi della ripresa. Ecco perché i novanta giorni annunciati da Trump non sono solo un conto alla rovescia tecnico: sono un messaggio politico. Un ultimatum mascherato da tattica negoziale, in pieno stile trumpiano. Dazi annunciati, poi smentiti, sospesi, rilanciati: un balletto cinico che crea solo incertezza e instabilità. Del resto, il presidente USA ci ha abituati a tutto e al contrario di tutto. Lo vediamo anche nella frattura aperta con Elon Musk, uno dei suoi principali alleati mediatici nel passato, ora apertamente critico sulla questione dazi. Quando persino il tessuto imprenditoriale americano lancia l’allarme, significa che la misura è colma. In questo scenario, l’Europa non può restare a guardare. Mi aspetto una risposta all’altezza della sfida: ferma, autorevole, unitaria. Il nostro Paese, in particolare, ha il dovere di difendere un comparto strategico come quello agroalimentare che rischia di essere il bersaglio perfetto in una guerra commerciale che non abbiamo scelto.”
C’è chi parla di provocazione, altri di un test per vedere la risposta europea. Quale dei due?
“Quella di Trump è certamente una provocazione ma anche un test politico ben mirato. È un attacco all’Europa, pensato per colpire l’economia e metterne alla prova la tenuta politica. La verità è che troppo spesso ci siamo mostrati deboli e divisi. Trump ci ha abituati ai suoi colpi di scena e in passato qualcuno in Europa ha perfino pensato che fossero solo trovate spettacolari. Oggi, anche chi ha contribuito alla sua ascesa, come Elon Musk, prende le distanze. Il messaggio è chiaro: l’Europa non può più contare sulla protezione automatica degli Stati Uniti, come accadeva nel dopoguerra. E allora serve una risposta lungimirante. Non basta evocare un esercito comune: il vero salto di qualità passa da una riforma coraggiosa delle regole sugli aiuti di Stato, per consentire ai Paesi membri di sostenere davvero le proprie economie. Servono coesione, visione e, soprattutto, la volontà politica di cambiare davvero.”
Gli Stati Uniti hanno confuso credito finanziario e dazi, possibile che in pochi abbiano sottolineato questo grossolano errore?
“È sorprendente quanto poco si sia parlato di come l’amministrazione Trump abbia realmente costruito la giustificazione per i dazi. Solo alcune testate economiche come il Financial Times e poche voci autorevoli come il presidente della Fed, subito zittito, hanno sollevato il tema. Eppure, bastava guardare i numeri per capire. Trump ha preso il deficit commerciale degli Stati Uniti verso l’Europa e lo ha trasformato in una formula arbitraria. Nel 2024, gli USA hanno importato beni dall’UE per 605,8 miliardi di dollari ed esportato per 370,2 miliardi, con un deficit di 235,6 miliardi. La sua amministrazione ha diviso il deficit per il totale delle importazioni, ottenendo il 39%. Poi ha dimezzato la cifra, arrotondato al 20% ed ecco spiegato, secondo loro, il livello dei dazi da applicare. Il problema non è solo nella matematica, è nell’approccio. Le tariffe non si fissano con una calcolatrice ma in base a equilibri economici complessi. Applicare una logica così semplicistica a un sistema di relazioni commerciali interdipendenti è non solo sbagliato ma anche pericoloso.”
SEN. SILVIA FREGOLENT
La reazione interna ai dazi di Trump e quella di Musk pensa faranno tornare il tycoon sui propri passi?
“Trump e i suoi alleati, con l’annuncio dei dazi, hanno già ottenuto il loro tornaconto politico. Ora siamo nel pieno di un cinico balletto: dazi sì, dazi no, dazi forse. Intanto il mondo economico americano ha già iniziato a reagire, e non bene. La Borsa ha mostrato segni di nervosismo e, al netto di dinamiche speculative ora sotto la lente delle autorità, il clima è tutt’altro che stabile. Lo ha detto anche il presidente della Fed: le misure di Trump mettono a rischio la crescita americana. Pensare di riportare tutta la produzione in patria è una visione fuori dalla realtà economica attuale. Distributori, importatori, ristoratori hanno tutto l’interesse a mantenere rapporti solidi con l’Europa. Ma attenzione: non possiamo affidarci solo alle proteste degli imprenditori americani. Trump ha vinto anche contro l’establishment del suo partito, parlando all’America rurale, conservatrice e protezionista. Con i consensi in calo, difficilmente vorrà smentire quella promessa. Per questo serve una risposta politica europea. Perché, se restiamo fermi, a pagare saranno i nostri produttori, lavoratori e imprese. In questa partita, il silenzio è la peggiore delle scelte. Enorme, in termini di costi e di mercato. Pensiamo solo alla necessità di ridisegnare e ristampare nuove etichette ma anche al fatto che si ridurrebbe lo spazio per la descrizione delle qualità di quel vino, delle indicazioni di provenienza, degli abbinamenti consigliati. Un effetto che va in controtendenza rispetto alla necessità di informare maggiormente i consumatori. Poi ci sarebbe l’ovvio effetto deterrenza dovuto al terrore che creerebbero le nuove etichette. Magari chi vuole ubriacarsi lo farebbe comunque ma chi tiene alla propria salute potrebbe essere indotto a eliminare anche il singolo bicchiere a pasto, senza alcun motivo valido.”
I proprietari di aziende vinicole italiane come stanno reagendo? Cosa le dicono?
“I produttori di vino italiani sono preoccupati ma determinati. Mi dicono: “Ce la mettiamo tutta ma da soli non possiamo farcela”. E hanno ragione. Dopo anni segnati da crisi climatiche, aumento dei costi, normative europee penalizzanti e calo dei consumi, ora rischiano di essere travolti anche da una guerra commerciale. Il settore vitivinicolo resta un’eccellenza del Made in Italy ma il contesto è fragile. Solo nel 2023 il consumo di vino in Europa è sceso del 3,1%. E ad aprile, secondo l’Osservatorio di Unione Italiana Vini, l’export verso gli USA ha registrato un -7,5% a volume e -9,2% a valore, pari a quasi 154 milioni di euro in meno. Senza il traino americano, il bilancio del primo quadrimestre peggiorerebbe dal -9% al -15%. E intanto rallentano anche Giappone, Cina, Russia, mentre tengono solo Svizzera e Canada. Troppo poco. I produttori vedono ordini congelati, importatori più cauti e temono che mesi di lavoro vengano bruciati da una scelta politica che nulla ha a che vedere con la qualità delle loro bottiglie. Per questo chiedono che le istituzioni italiane ed europee siano al loro fianco. Perché difendere il vino oggi significa difendere posti di lavoro, territori e credibilità internazionale.”
Un braccio di ferro Europa-Stati Uniti sui dazi cosa potrebbe comportare?
“Aprirebbe uno scenario pericoloso, che rischia di trasformarsi in una spirale senza controllo. In un mercato globale così interconnesso, i dazi sono la scelta più sbagliata. L’Italia è tra i Paesi più esposti, non solo per il primato nell’agroalimentare, con 69 miliardi di Euro di export nel 2024 ma anche per la sua forza nel manifatturiero (siamo la seconda industria europea dopo la Germania), nel biomedicale, nella moda e nel tessile. Settori che rischiano di diventare vittime collaterali di logiche più grandi. Colpirli significa indebolire un’economia già rallentata, in un momento in cui la crescita è fragile e gli scenari geopolitici sono instabili. Ora è il momento di difendere le nostre eccellenze senza alzare nuovi muri.”
Se alla fine i dazi si fermassero solo all’acciaio, potremmo dire: molto rumore per nulla?
“Sarebbe un errore minimizzare. Anche se il vino e gli altri prodotti restassero fuori, il segnale politico lanciato resta grave: gli Stati Uniti sono pronti a usare i dazi come arma di pressione anche su partner storici come l’Europa. Questo cambia le regole del gioco. Il solo annuncio dei dazi ha indebolito la fiducia nei mercati e creato incertezza: in economia la percezione conta quasi quanto la realtà. Capire le mosse di Trump poi, è sempre un azzardo. Non credo che si accontenterà di colpire solo l’acciaio, temo che il prossimo bersaglio possa essere proprio il comparto agricolo. Spero di sbagliarmi ma non possiamo farci trovare impreparati.”
Non la stupisce che un Paese che delocalizza chieda di riportare la produzione in patria? Sembra poco…capitalista.
“È l’ennesima contraddizione. Si usa la retorica del patriottismo economico per giustificare scelte protezionistiche ma intanto le stesse aziende che ne beneficiano continuano a produrre fuori dagli Stati Uniti, delocalizzando e sfruttando manodopera a basso costo nei Paesi in via di sviluppo. È un doppio standard, un’idea di capitalismo a doppia morale: patriottismo a parole, delocalizzazione nei fatti. Il vero capitalismo moderno non è chiusura, è apertura intelligente, competizione leale.”
Cosa teme per il comparto vitivinicolo se i dazi venissero confermati o addirittura inaspriti?
“Temo un colpo durissimo, soprattutto per le piccole e medie imprese che rappresentano l’ossatura del settore. Gli Stati Uniti sono il nostro primo mercato in valore: nel 2024 abbiamo esportato vino per 1,9 miliardi di euro, con una crescita del 10% rispetto all’anno precedente. L’introduzione di dazi al 20%, secondo Confagricoltura, comporterebbe circa 387 milioni di euro in costi aggiuntivi. Una cifra insostenibile per moltissimi produttori, che rischiano di perdere competitività sugli scaffali americani a favore di altri Paesi. Il problema è ancora più ampio. In Commissione Agricoltura del Senato, durante l’esame del progetto di risoluzione UE n. COM(2025)137, abbiamo ascoltato i viticoltori italiani e le loro associazioni. Le preoccupazioni non riguardano solo i dazi ma una trasformazione profonda del settore: calo dei consumi, cambiamento degli stili di vita, crisi climatica e malattie fungine che hanno ridotto drasticamente la produzione, basti pensare che siamo a -13% rispetto al 2022, con crolli del 40% in regioni come Abruzzo, Campania e Marche. I produttori chiedono una strategia a 360 gradi: più flessibilità nella gestione del potenziale produttivo per evitare surplus, regole semplici su etichettatura e vendita di vini a basso contenuto alcolico, investimenti sul turismo enologico e nuovi mercati per l’export. E soprattutto una politica europea che tenga conto delle reali necessità del settore, a partire dalla revisione del sistema di autorizzazioni per i reimpianti. I dazi sono dunque la punta dell’iceberg. In gioco non c’è solo un fatturato ma un modello economico fatto di qualità, lavoro, cultura e territorio. Se vogliamo che il vino italiano resti un’eccellenza riconosciuta nel mondo, dobbiamo proteggerlo con politiche lungimiranti e strumenti concreti.”
Il tema occupazionale: ci sono rischi concreti per i posti di lavoro?
“I rischi per l’occupazione sono reali. Il numero degli operatori inseriti nel comparto è da tempo in calo. Il settore vitivinicolo è in sofferenza da anni: secondo il Censimento 2020, le aziende vinicole in Italia si sono quasi dimezzate rispetto a dieci anni fa, passando da 473mila a 241mila. Lo stesso vale per le aziende vinificatrici, scese da 63mila a 33mila. Un calo strutturale che parla da sé. Se ora si aggiungono i dazi, il rischio è che molte altre realtà, soprattutto le più piccole, non reggano il colpo. Quando un’azienda chiude, non sparisce solo un’etichetta, non ci rimette solo il titolare: si perdono posti di lavoro nei campi, nelle cantine, nella logistica, nei consorzi, nella distribuzione e nell’accoglienza enoturistica. È un effetto domino che colpisce interi territori. Il vino italiano non è solo un prodotto, è una economia reale, diffusa, che dà lavoro e dignità a centinaia di migliaia di persone. È una bandiera dell’Italia nel mondo, è cultura, impresa, occupazione, paesaggio. Proteggerlo significa proteggere comunità intere. Per questo la battaglia contro i dazi non è solo commerciale ma profondamente sociale.”